Non sempre le ferite riescono a cicatrizzarsi. Talvolta rimangono dormienti in superficie per poi riprendere a sanguinare d’improvviso, quando l’incredulità diventa rabbia dolorosa e impotente. Succede ai nostri corpi piagati dagli anni o dalla malattia. Succede alla nostra terra, spesso oltraggiata con la silente compiacenza di gran parte della società. Succede, purtroppo, alla Valle Tanaro, storico corridoio di passaggio che solletica l’anima meridionale delle Alpi Liguri e strizza l’occhio alla Francia.
Era il 3 novembre del 1994 quando una pioggia cattiva e costante cominciava a cadere sull’alta valle del Tanaro. Gocce pesanti che avevano fame di aria e di spazio. 206 i millimetri caduti a Viozene di Ormea nella sola giornata del 6 novembre, ma la pioggia guadagnò tempo e terreno coinvolgendo gran parte della Regione. Un disastro di proporzioni inimmaginabili che raggiunse il suo acme da Ceva verso Alba, Asti e Alessandria. Nel fango di quella che per decenni rimase “la Grande Alluvione”, l’impronta del nascente sistema di allertamento e di Protezione Civile.
Ma a metà anni Novanta i soldi non sembravano un problema. Supporti, aiuti, stanziamenti. In poco tempo quel corridoio vallivo che pareva essersi piegato al volere del fiume, rialzò la testa con orgoglio e determinazione. Nei lavori dell’attenta e puntuale Paola Scola (“Eroi nel Fango”, 2014 e “Più forti dell’alluvione”, 2019, entrambi usciti per l’Araba Fenice) le cronache del dramma, l’eroismo dei volontari, le sofferenze di chi aveva perso tutto. Uno squarcio profondo che si rimarginò a poco a poco, grazie all’apparente tregua di quel fiume che per due decenni rimase in silenzio, come in attesa.
Il 24 novembre del 2016, invece, l’apocalisse la si percepì fin dal mattino. Al quarto giorno di pioggia, alcuni versanti si lasciarono andare vomitando verso il basso terra e acqua. Il cielo, però, finse di non vedere e continuò a svuotarsi. 343 i millimetri accumulatisi a Ponte di Nava, dopo i 129 della giornata precedente. L’alta Valle del Tanaro si inginocchiò per la seconda volta in ventidue anni. Voragini ad Ormea e negozi sommersi a Garessio. Ma il peggio, stavolta, toccò a Priola dove l’acqua travolse la ferrovia e si lanciò su Pianchiosso e a Briga Alta, frustata da movimenti franosi millenari. Ponti e case abbattute, danni a Bagnasco, Nucetto e Caprauna. Le lacrime di fango arrivarono fino a Ceva dove invasero le scuole e il Centro di Formazione Professionale. Più a valle, invece, l’ondata apparve più clemente e controllata, merito anche di quel sistema di Protezione Civile ormai maggiorenne.
Neanche stavolta, però, la gente del Tanaro si diede per vinta nonostante la crisi economica, la marginalità infrastrutturale e lo spopolamento. Sentieri, strade e mulattiere ripresero forma a poco a poco. Cerotti di asfalto e di cemento, di terra e di legno vennero issati qua e là giorno dopo giorno. Persino la ferrovia turistica venne ripristinata in meno di due anni. Un segnale per il cuore e per la mente.
Alla testata della valle, invece, sembrava tutto compromesso. Monesi ferita a morte, Piaggia inagibile. Si chiese allo Stato, ma la liquidità degli anni Novanta era ormai un lontano ricordo. La luce dei mass media si spense dopo poche settimane e la gente, come sempre, imparò a fare da sé. Sottovoce, senza insistere. La rabbia decantò e divenne determinazione e in quattro anni le ferite dell’alluvione sbiadirono sotto il lavoro di amministratori, abitanti e volontari, da Caprauna a Briga Alta, da Ormea a Garessio.
Poi arriva il 2020 con il suo buio pandemico e un’unica piccola luce: la riapertura della strada per Monesi e l’incremento insperato delle presenze turistiche estive, con le seconde case improvvisamente vivaci e la polvere dell’abbandono scacciata via da paesi, frazioni e borgate. Una carezza inattesa che però dura un attimo, giusto il tempo di respirare fino ad un drammatico venerdì di inizio ottobre, quando il pomeriggio si fa notte e un buio improvviso avvolge la Valle Tanaro.
Un buio temporalesco che sa di tuoni, fulmini, vento e pioggia incessante. Troppo incessante. Sul Monte Berlino (sullo spartiacque Tanaro – Casotto) scendono 414 millimetri di pioggia, di cui 364 in dodici ore. Trecentosessantaquattro litri per metro quadrato di terreno in dodici ore. A Ponte di Nava 310 millimetri nell’intera giornata, di cui 263 in dodici ore. Troppi per tutti.
Il Tanaro rialza la voce d’improvviso. Urla, gorgheggia, tossisce, poi decide di scendere a valle e di travolgere tutto ciò che trova. Dodici ore appena e le ferite si squarciano. Il fango impasta sangue, lacrime e dolore, ma porta con sé impotenza e rassegnazione. Perché stavolta Paolo, Paola, Marco, Alessandra e Lorenzo non ne possono più. A Ceva finiscono sott’acqua le scuole e il Centro di Formazione Professionale (quasi a voler spegnere il futuro schiacciando l’istruzione), ma anche i locali della Croce Bianca che custodiscono quintali di materiale sanitario indispensabile per l’emergenza da Coronavirus.
La gente della Valle Tanaro ce la farà anche stavolta, ne sono sicuro. Ma sono altrettanto sicuro che il loro grido di aiuto verrà strozzato dall’atavica dignità che li contraddistingue. E allora, umilmente, voglio provare a dar loro la voce, mettendomi a disposizione per veicolare eventuali richieste o messaggi e rendendomi disponibile a promuovere un’apposita campagna di crowdfunding, appena gli enti della zona indicheranno eventuali emergenze ed esigenze. Perché “tutto scorre”, ma l’impronta della solidarietà rimane ed è forse l’arma più importante per riemergere dalle tenebre.
Gabriele Gallo