Un’insenatura verde che dalle porte di Acceglio fugge verso meridione a solleticare le cime dell’alta Valle Stura. Un’appendice orografica in cerca di indipendenza, di libertà territoriale, di uno spazio vitale dove poter respirare a fondo e in solitudine. La personalità del Vallone d’Unerzio si percepisce fin da subito. Da quella borgata di Frere adagiata nella parte alta di un conoide alluvionale. Da qui ha inizio La Scourcio, la storica “scorciatoia” che risaliva verso l’alto abbracciando i gargarismi del Rio Unerzio.
Un passo dopo l’altro in un paesaggio che si modifica con la quota. Un libro aperto sulla natura selvaggia che pagina dopo pagina si arricchisce di nuovi suoni e di nuovi odori. Conifere, rocce, pascoli e cielo. Qua e là qualche coriandolo antropico depositatosi in superficie. Nessuno scavo profondo, però. Tutto qui è armonico e silenzioso. Gheit, ad esempio, sonnecchia a 1372 metri di quota. L’antico lazzaretto che avrebbe dovuto proteggere tutti gli abitanti del Vallone d’Unerzio dalla peste, oggi si è rimesso a nuovo indossando i vestiti di una raffinata architettura alpina.
Nell’aria il respiro della montagna autentica e ruvida di un tempo. Usi, costumi e tradizioni che rivivono nel centro di Chialvetta (principale borgata del vallone) e nella sua “Misoun d’en bot”, un caleidoscopico museo etnografico che riproduce gli ambienti domestici tipici dei secoli scorsi. Più di 1.500 oggetti sparsi per un’antica abitazione tradizionale composta da cucina, stanza da letto, stalla e fienile. Dalle pentole in rame al paiolo per la polenta, dalle stoviglie in ceramica ai pani di orzo e segale, dai vecchi giochi alle ingegnose trappole per topi, faine e volpi, quando si cacciava per necessità e non per divertimento.
E forse proprio per rispetto verso un mondo rurale che oggi si intuisce appena, la strada in inverno smette di ansimare alle porte di Chialvetta. La neve ricopre allora quella striscia sottile di asfalto che persiste a risalire verso l’alto. La vitalità del Vallone d’Unerzio, però, non si ferma neanche con la neve e con il gelo. A Pratorotondo lo scorcio paesaggistico lascia senza fiato. Una terra dai lineamenti duri ma tremendamente belli, da rimanere impressi negli occhi e nella mente. Un dipinto naturalistico a cielo aperto verrebbe da dire, per la borgata natia di Matteo Olivero, genio pittorico divisionista di fine Ottocento.
A Viviere, infine, l’Unerzio tira il fiato e si riposa. Un grappolo di case arroccate intorno ad un pilone votivo costruito su di un masso, a loro volta dislocate ai margini di una morena glaciale. Più in alto Prato Ciorliero, sterrate militari, pascoli e rocce che graffiano il cielo facendolo sanguinare. Ma è un sangue che profuma di vento, di libertà, di purezza. Una nuova linfa vitale con cui guardare al presente e al futuro.
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Posto nel cuore della Valle Maira e raggiungibile come detto dal comune di Acceglio, il toponimo Unerzio parrebbe derivare dall’antico sfruttamento comunitario del territorio (Unèrsi) o dal termine Univers (antica denominazione del vallone), in funzione del suo orientamento rivolto a settentrione (invers in lingua provenzale).