La tragica valanga di Bergemoletto

Tre giorni di neve. Cattiva, pesante, ininterrotta. Neve di marzo, che si appiccica ai versanti e si fa collosa, salvo poi lasciarsi andare d’improvviso e involarsi verso il basso. Nel 1755 le Alpi di Cuneo brulicano di gente e di borgate. Per alcuni, dopotutto, la montagna salva, difende, offre opportunità di lavoro e di sostentamento. La Valle Stura in particolare sembra un piccolo paradiso stretto tra prati, pascoli e boschi.

Non sarà così faccile trovar altra Terra, cui tanto la natura sia stata propizia e benigna, e che abbia avuto per altra parte sotto il governo in cui vive tanto favor di fortuna”. Così scriveva nel 1752 a proposito di Demonte, l’intendente della provincia di Cuneo Ignazio Nicolis Conte di Brandizzo. Ma il benessere, a volte, è un gigante dai piedi d’argilla che poggia su ferite pronte a sanguinare. Perché Demonte, a metà Settecento, non è soltanto agricoltura. È anche industria bellica in virtù di quel forte militare costruito da Carlo Emanuele I duecento anni prima sulla caratteristica altura del Podio.

Un’opera che si sta ristrutturando dopo le battaglie del 1744, divoratrice di forza lavoro e di legname soprattutto, al punto che i tagli si fanno più intensi e diffusi. Si rompe così il delicato equilibrio uomo-ambiente e la montagna urla, piange, si divincola. Finché, forse, non decide di chiedere il conto. Il 19 marzo del 1755, dopo tre giorni di nevicata, le case di Bergemoletto quasi non si trovano, annegate in una melma bianca omogenea e cementizia.

Centocinquanta persone resistono nonostante il peso opprimente della neve. Si scaricano i tetti, si accudiscono gli animali, si prega e si aspetta. Il giorno, intanto, spalanca le sue braccia dietro l’ennesima coperta di nuvole, ma persino il cielo non ha più lacrime da versare. Ha smesso di nevicare e di piovere. Si resta in attesa, in un fragile equilibrio di nervi e di tempo. Poi, d’improvviso, il Monte Bourel si scuote. Una, due, tre volte. Bergemoletto sussulta. Tre differenti valanghe si involano verso il basso abbracciandosi l’una all’altra.

L’intuito diventa consapevolezza, la paura si fa terrore. Urla, pianti e silenzio. Trenta abitazioni vengono travolte da una spaventosa massa di neve. Ventidue persone muoiono immediatamente. Bergemoletto si piega su un fianco. Per qualcuno, però, il destino sembra avere altri progetti. Sotto diversi metri di neve all’interno di una “camera d’aria” creatasi fortunosamente tra le macerie della propria dimora, infatti, rimangono intrappolate quattro persone: Anna Maria Rocchia (45 anni), sua figlia tredicenne Margherita, suo figlio minore di sei anni Antonio e sua cognata Anna di 24 anni. Poco distanti, nella parte di stalla ancora integra, trovano invece riparo una dozzina di galline, due capre e un’asina.

Passano i giorni ma nessuna squadra di soccorso riesce a individuare i dispersi, che si vedono così costretti a cibarsi delle uova delle galline e dei prodotti caprini, dissetandosi con le rade gocce di fusione della neve che percolano tra le macerie. Le condizioni psicologiche e igienico-ambientali si fanno spaventose con il passare del tempo. Gli animali muoiono di stenti e dopo dieci giorni anche il piccolo Antonio desiste e vola in cielo per sempre. Le tre donne, invece, resistono. Ora dopo ora, settimana dopo settimana, finché non vengono estratte ancora vive trentasette giorni dopo, nella gioiosa incredulità dei familiari e nello sconcerto degli scienziati dell’epoca.

Ancora oggi questo straordinario episodio rappresenta il record assoluto di sopravvivenza sotto una valanga, seppur con le vittime non a diretto contatto con la neve. Per eventuali approfondimenti, si consiglia la lettura dell’agile volume “La grande valanga di Bergemoletto” di Pietro Spirito, edito da Vivalda Editore nel 1995.